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Se ti piace la poesia, entra in questo sito, e scambiamo pure quattro righe tra di noi.
C'è sempre qualcosa di nuovo da scrivere, l'uomo non finirà mai di scrivere qualcosa di nuovo, di non già scritto, poiché sterminato è il campo della fantasia del pensiero, tanto che, quando si è sicuri di avere scritto tutto, ci si accorge che si è appena all'inizio di quello che si voleva scrivere.
Un po' come per un appassionato di montagna, che passa la vita a salire e raggiungere le cime, e sale e sale, e più che le sale e più altre gli rimangono da salire, non gli basta tutta la vita per arrivare a dire che le ha salite tutte.
Ciò vale anche per la poesia, sia per chi è considerato poeta vero che per chi è un onesto artigiano del verso, diciamo un autodidatta dalla parola. C'è la parola con la "p" minuscola e quella con la "p" maiuscola, ma pur sempre di parola si tratta.
Molti al giorno d'oggi, soprattutto tra gli onesti artigiani del verso, sono convinti di dover scrivere in modo incomprensibile, stravagante, pieno di metafore assurde, senza senso, fuori luogo, che non fanno che appesantire il ritmo del verso. Perché pensano che per essere creduti poeti veri occorra buttare giù cose a caso, concetti che la gente fatica a capire; il vero poeta cioè non dovrebbe farsi comprendere: il tasso di qualità, di bravura, dovrebbe salire con l'aumento dell'incomprensibilità da parte del lettore.
Scrivere poesia è certamente assai più difficile che scrivere prosa, non solo per certe regole metriche che la fanno distinguere dalla prosa, ma anche perché, come ha scritto Giambattista Vico, il più sublime lavoro della poesia è "alle cose insensate dare senso e passione". Ciò vale a dire che la poesia rappresenta anche il senso del non senso, che è assai di più ( e non è un gioco di parole ) di quello che è il non senso del senso della prosa.
Infatti la poesia, è uno sconvolgimento interno, un autoconfessarsi nel confessionale della propria coscienza, santo o peccatore, o entrambi insieme. E' l'ossimoro della gioia-dolore, delle tristezza-allegria, della serenità-irrequietezza.
Un autoassolversi o un autocondannarsi .
Ed è per questo che la poesia, quella vera, è così tremendamente seria, tanto che si può fare gli stupidi dovunque, ma non nella poesia.
Italo Bonassi
Nell’era della tecnologia, ma anche di un certo analfabetismo di ritorno delle generazioni giovani, che fanno tutto meno che leggere, l’internet, l’e-mail, gli sms, ecc., sono in cima alle loro aspirazioni. Il poeta è un marziano, un alieno, o, peggio, uno che è rimasto indietro nella storia E molti lo guardano con curiosità, come fosse un diverso, una merce rara, o come, prima delle grandi immigrazioni extra-comunitarie, molti di noi si guardava uno con la pelle nera.
La società di oggi recepisce la poesia? Sì, e sta ad ascoltarla in religioso silenzio se letta alla tivù da Roberto Benigni, popolarissimo comico. Ascolta le sue battute simpatiche e mordaci, che fanno da introduzione alla lettura dantesca, e poi accetta
di ascoltare anche il resto, le terzine, che siano dell’Inferno o del Paradiso, non importa, importa ascoltare il comico, e pazienza se ci propina la storia di Farinata degli Uberti o la fame inconsolata del Conte Ugolino. Così si sente Dante, e non so quanto gli rimarrà dentro, forse di più la voce del comico che i lamenti di Pier delle Vigne. In ogni caso, sempre meglio di niente. Almeno saprà che è esistito un certo Dante Alighieri, e che ha scritto di un certo Paolo e di una certa Francesca.
Spesso mi viene chiesto perché scrivo in poesia, e non, ad esempio, in prosa, cos’è che mi spinge a mettere in versi quello che si
potrebbe assai più facilmente trascrivere in esteso sino alla fine della riga, senza quell’andare ogni tanto a capo che chi non sa di poesia non capisce. Scrivere in poesia è certamente più dificile che scrivere in prosa, tanto è verco che grandi scrittori che sono passati alla poesia si sono dimostrati mediocri poeti. Lasciamo stare il Manzoni, grandissimo prosatore studiato e ristudiato anche come poeta, nonostante i suoi noiosi e brutti settenari, che oggi pochi hanno voglia di riscoprire, fra gli altri grandi scrittori moderni che hanno scelto anche la poesia mi sento di citare Antonio Bevilacqua, ma anche Pirandello e Gadda, e pochi altri. Pochi scrittori hanno pensato di sconfinare anche nel campo della poesia, parecchi poeti invece sono stati pure ottimi prosatori. Tra questi, mi piace citare il ligure Sbarbaro, uno dei poeti che prediligo.
Pure io a volte mi domando perché non mi metta a scrivere anche in prosa, una scelta di scrittura innegabilmente più semplice, quella del comune gergo quotidiano, che è poi anche quello scelto dalla tivù, che non si può certo definire maestra d'italiano.
Hanno scritto che, in quanto ad interdipendenza tra la poesia e la prosa, in poesia esce quello che si sa già, che si intuisce o si crede di intuire, mentre la narrativa spesso è una specie di “autoanalisi involontaria”, che la porta a capire “cose che non sapeva". Ebbene, per me è esattamente l’incontrario: la poesia, se è tale, è introspezione, autoanalisi, studio, scavo della parola, ricerca di sé stessi che si redime nella sacralità della Parola con la P maiuscola, quella che è dentro di noi, fa parte di noi, è il nostro io che ci parla dentro. Qui sta la differenza, per me, tra la poesia e la prosa, cioè la prosa è il linguaggio abituale di comunicazione, mentre la poesia - sempre che sia poesia – è ispirazione, idealizzazione, meditazione, creatività e suggestione delle intuizioni e della fantasia.
La poesia, che è puro linguaggio ma anche ragionamento, può contenere, e contiene, anche dell’irrazionalità, la prosa no: tant’è vero che il grande movimento ermetico del 900 ha coinvolto la poesia ma ha solo appena sfiorato la prosa. Per la prosa la Parola è solo un mezzo d'informazine, per la poesia è l'informazione stessa.
Si scrive non so più da quanti anni della crisi della poesia, eppure si continua a scriverla e continuano ad uscire libri di singoli
autori, antologie, recensioni, studi, ricerche, ecc., e, come non bastasse, si continua a organizzare convegni e seminari, nei quali tra l'altro si parla anche di questa crisi della poesia.
I concorsi di poesia in Italia non si contano più, tanto numerosi sono, da Bolzano fino in Sicilia, con grande partecipazione di poeti. Tantissimi in Italia quelli che scrivono poesie, pochi quelli che le leggono, Se tutti noi poeti leggessimo anche le poesie degli altri, si continuerebbe a fare una stampa dietro l’altra. Non c’è la crisi dello scrivere poesie, dello stamparla, ma la crisi del comprarla, del leggerla. Con la crisi dei movimenti sessantottini della Neoavanguardia ( rappresentata dal cosiddetto
Gruppo 63 ), si è avuta la radicale poesia contestatrice di Sanguineti, uno dei massimi rappresentanti sessantottini e della sua scuola avanguardista, con esiti populisti, che ha allontanato la poesia dai suoi canoni tradizionali, creando quella che venne poi definita antipoesia o a-poesia, con violenti dibattiti come la polemica Luzi-Sanguineti del ’54 e quella Pasolini-Sanguineti nel ’57. Poeti come il Sanguineti, sessantottini celebrati soprattutto da certa critica ultramarxista, sono diventati famosi, ma hanno fatto una brutta poesia.
Questa non-poesia avanguardistica, l’antipoesia ( che è stata poi una sorta di imitazione del Futurismo ), e quella sanguinetiana in particolare, non ha influito sui migliori poeti contemporanei ( fatta eccezione lo Zanzotto, soprattutto quello dei “Fosfeni “) ma notevolmente e in modo negativo su un grande numero di poeti cosiddetti minori, che, invece di ispirarsi ai grandi del Novecento, hanno preferito la scelta più semplice e meno impegnativa della poesia - non poesia, la poesia di rottura, apoetica, incomprensibile al lettore.
Provocando in tal modo l’allontanamento di una buona parte dei fruitori della poesia, ossia dei suoi lettori. Tanto che si può dire tranquilamente che Sanguineti e altri della sua scuola hanno fatto più del male che del bene alla poesia.
ITALO BONASSI
A volte mi chiedo se faccia più rumore il chiasso della parola parlata, gridata, o il silenzio di quella taciuta.
L'uomo contemporaneo è diventato l'appendice del rumore, ha solo bocca per parlare, non ha più gli orecchi per ascoltare. Siamo divenuti la società tutta bocca e senza orecchi, abbiamo perso il senso del silenzio, rompendo l'equilibrio con l'ambiente e con tutto ciò di vivo che ci circonda. Il silenzio al giorno d'oggi è stato definito vuoto e deserto come il Polo Sud, e noi vi camminiamo fuori ignorandolo, magari solo sfiorandolo, ma non vogliamo più, o non possiamo, inoltrarci in esso, e ci aggiriamo confusi nella città del frastuono che diventa sempre più invivibile.
Forse il silenzio ci fa paura, forse alla dolcezza tranquilla e riposante di un notturno di Chopin o a quello delle lettura di una poesia preferiamo l'aggressione assordante del rimbombo delle tivù, delle radioline, dei CD. dei motorini.
Forse anche noi, come Sartre, possiamo affermare che il silenzio è semplicemente qualcosa di mostruoso, perché ci mette a tu per tu con la nostra coscienza.
Siamo tutti schiavi delle parole parlate, anche di quelle gridate alla Grillo, che ci travolgono, delle parole comari che sporcano chi le dice e chi le ascolta. Le parole della poesia hanno invece bisogno di grandi boccate di silenzio, procedono assieme al silenzio e ne fanno un tutt'uno armonico.
Taci. Su le soglie / del bosco non odo / parole che dici / umane, ma odo / parole più nuove / che parlano gocciole e foglie / lontane. / Ascolta. Piove / dalle nuvole sparse. / Piove su le tamerici / salmastre ed aspre, / piove sui pini / scagliosi ed irti, / piove su i mirti / divini, / su le ginestre fulgenti / di fiori accolti, / su i ginepri folti / di coccole ardenti, / piove su i nostri volti / silvani, / piove su le nostre mani / ignude, / su i nostri vestimenti / leggeri..... ( Gabriele D'Annunzio, la pioggia nel pineto )
La pioggia nel pineto è la poesia del silenzio, del silenzio che ci parla sommessamente con il rumore della pioggia, che più sordo e più fioco / s'allenta, si spegne, / risorge, trema, si spegne, un rumore di croscio che varia / secondo la fronda / più folta, men folta.
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C'è sempre qualcosa di nuovo da scrivere, l'uomo non finirà mai di scrivere qualcosa di nuovo, di non già scritto, poiché sterminato è il campo della fantasia del pensiero, tanto che, quando si è sicuri di avere scritto tutto, ci si accorge che si è appena all'inizio di quello che si voleva scrivere.
Un po' come per un appassionato di montagna, che passa la vita a salire e raggiungere le cime, e sale e sale, e più che le sale e più altre gli rimangono da salire, non gli basta tutta la vita per arrivare a dire che le ha salite tutte.
Ciò vale anche per la poesia, sia per chi è considerato poeta vero che per chi è un onesto artigiano del verso, diciamo un autodidatta dalla parola. C'è la parola con la "p" minuscola e quella con la "p" maiuscola, ma pur sempre di parola si tratta.
Molti al giorno d'oggi, soprattutto tra gli onesti artigiani del verso, sono convinti di dover scrivere in modo incomprensibile, stravagante, pieno di metafore assurde, senza senso, fuori luogo, che non fanno che appesantire il ritmo del verso. Perché pensano che per essere creduti poeti veri occorra buttare giù cose a caso, concetti che la gente fatica a capire; il vero poeta cioè non dovrebbe farsi comprendere: il tasso di qualità, di bravura, dovrebbe salire con l'aumento dell'incomprensibilità da parte del lettore.
Scrivere poesia è certamente assai più difficile che scrivere prosa, non solo per certe regole metriche che la fanno distinguere dalla prosa, ma anche perché, come ha scritto Giambattista Vico, il più sublime lavoro della poesia è "alle cose insensate dare senso e passione". Ciò vale a dire che la poesia rappresenta anche il senso del non senso, che è assai di più ( e non è un gioco di parole ) di quello che è il non senso del senso della prosa.
Infatti la poesia, è uno sconvolgimento interno, un autoconfessarsi nel confessionale della propria coscienza, santo o peccatore, o entrambi insieme. E' l'ossimoro della gioia-dolore, delle tristezza-allegria, della serenità-irrequietezza.
Un autoassolversi o un autocondannarsi .
Ed è per questo che la poesia, quella vera, è così tremendamente seria, tanto che si può fare gli stupidi dovunque, ma non nella poesia.
Italo Bonassi
Nell’era della tecnologia, ma anche di un certo analfabetismo di ritorno delle generazioni giovani, che fanno tutto meno che leggere, l’internet, l’e-mail, gli sms, ecc., sono in cima alle loro aspirazioni. Il poeta è un marziano, un alieno, o, peggio, uno che è rimasto indietro nella storia E molti lo guardano con curiosità, come fosse un diverso, una merce rara, o come, prima delle grandi immigrazioni extra-comunitarie, molti di noi si guardava uno con la pelle nera.
La società di oggi recepisce la poesia? Sì, e sta ad ascoltarla in religioso silenzio se letta alla tivù da Roberto Benigni, popolarissimo comico. Ascolta le sue battute simpatiche e mordaci, che fanno da introduzione alla lettura dantesca, e poi accetta
di ascoltare anche il resto, le terzine, che siano dell’Inferno o del Paradiso, non importa, importa ascoltare il comico, e pazienza se ci propina la storia di Farinata degli Uberti o la fame inconsolata del Conte Ugolino. Così si sente Dante, e non so quanto gli rimarrà dentro, forse di più la voce del comico che i lamenti di Pier delle Vigne. In ogni caso, sempre meglio di niente. Almeno saprà che è esistito un certo Dante Alighieri, e che ha scritto di un certo Paolo e di una certa Francesca.
Spesso mi viene chiesto perché scrivo in poesia, e non, ad esempio, in prosa, cos’è che mi spinge a mettere in versi quello che si
potrebbe assai più facilmente trascrivere in esteso sino alla fine della riga, senza quell’andare ogni tanto a capo che chi non sa di poesia non capisce. Scrivere in poesia è certamente più dificile che scrivere in prosa, tanto è verco che grandi scrittori che sono passati alla poesia si sono dimostrati mediocri poeti. Lasciamo stare il Manzoni, grandissimo prosatore studiato e ristudiato anche come poeta, nonostante i suoi noiosi e brutti settenari, che oggi pochi hanno voglia di riscoprire, fra gli altri grandi scrittori moderni che hanno scelto anche la poesia mi sento di citare Antonio Bevilacqua, ma anche Pirandello e Gadda, e pochi altri. Pochi scrittori hanno pensato di sconfinare anche nel campo della poesia, parecchi poeti invece sono stati pure ottimi prosatori. Tra questi, mi piace citare il ligure Sbarbaro, uno dei poeti che prediligo.
Pure io a volte mi domando perché non mi metta a scrivere anche in prosa, una scelta di scrittura innegabilmente più semplice, quella del comune gergo quotidiano, che è poi anche quello scelto dalla tivù, che non si può certo definire maestra d'italiano.
Hanno scritto che, in quanto ad interdipendenza tra la poesia e la prosa, in poesia esce quello che si sa già, che si intuisce o si crede di intuire, mentre la narrativa spesso è una specie di “autoanalisi involontaria”, che la porta a capire “cose che non sapeva". Ebbene, per me è esattamente l’incontrario: la poesia, se è tale, è introspezione, autoanalisi, studio, scavo della parola, ricerca di sé stessi che si redime nella sacralità della Parola con la P maiuscola, quella che è dentro di noi, fa parte di noi, è il nostro io che ci parla dentro. Qui sta la differenza, per me, tra la poesia e la prosa, cioè la prosa è il linguaggio abituale di comunicazione, mentre la poesia - sempre che sia poesia – è ispirazione, idealizzazione, meditazione, creatività e suggestione delle intuizioni e della fantasia.
La poesia, che è puro linguaggio ma anche ragionamento, può contenere, e contiene, anche dell’irrazionalità, la prosa no: tant’è vero che il grande movimento ermetico del 900 ha coinvolto la poesia ma ha solo appena sfiorato la prosa. Per la prosa la Parola è solo un mezzo d'informazine, per la poesia è l'informazione stessa.
Si scrive non so più da quanti anni della crisi della poesia, eppure si continua a scriverla e continuano ad uscire libri di singoli
autori, antologie, recensioni, studi, ricerche, ecc., e, come non bastasse, si continua a organizzare convegni e seminari, nei quali tra l'altro si parla anche di questa crisi della poesia.
I concorsi di poesia in Italia non si contano più, tanto numerosi sono, da Bolzano fino in Sicilia, con grande partecipazione di poeti. Tantissimi in Italia quelli che scrivono poesie, pochi quelli che le leggono, Se tutti noi poeti leggessimo anche le poesie degli altri, si continuerebbe a fare una stampa dietro l’altra. Non c’è la crisi dello scrivere poesie, dello stamparla, ma la crisi del comprarla, del leggerla. Con la crisi dei movimenti sessantottini della Neoavanguardia ( rappresentata dal cosiddetto
Gruppo 63 ), si è avuta la radicale poesia contestatrice di Sanguineti, uno dei massimi rappresentanti sessantottini e della sua scuola avanguardista, con esiti populisti, che ha allontanato la poesia dai suoi canoni tradizionali, creando quella che venne poi definita antipoesia o a-poesia, con violenti dibattiti come la polemica Luzi-Sanguineti del ’54 e quella Pasolini-Sanguineti nel ’57. Poeti come il Sanguineti, sessantottini celebrati soprattutto da certa critica ultramarxista, sono diventati famosi, ma hanno fatto una brutta poesia.
Questa non-poesia avanguardistica, l’antipoesia ( che è stata poi una sorta di imitazione del Futurismo ), e quella sanguinetiana in particolare, non ha influito sui migliori poeti contemporanei ( fatta eccezione lo Zanzotto, soprattutto quello dei “Fosfeni “) ma notevolmente e in modo negativo su un grande numero di poeti cosiddetti minori, che, invece di ispirarsi ai grandi del Novecento, hanno preferito la scelta più semplice e meno impegnativa della poesia - non poesia, la poesia di rottura, apoetica, incomprensibile al lettore.
Provocando in tal modo l’allontanamento di una buona parte dei fruitori della poesia, ossia dei suoi lettori. Tanto che si può dire tranquilamente che Sanguineti e altri della sua scuola hanno fatto più del male che del bene alla poesia.
ITALO BONASSI
A volte mi chiedo se faccia più rumore il chiasso della parola parlata, gridata, o il silenzio di quella taciuta.
L'uomo contemporaneo è diventato l'appendice del rumore, ha solo bocca per parlare, non ha più gli orecchi per ascoltare. Siamo divenuti la società tutta bocca e senza orecchi, abbiamo perso il senso del silenzio, rompendo l'equilibrio con l'ambiente e con tutto ciò di vivo che ci circonda. Il silenzio al giorno d'oggi è stato definito vuoto e deserto come il Polo Sud, e noi vi camminiamo fuori ignorandolo, magari solo sfiorandolo, ma non vogliamo più, o non possiamo, inoltrarci in esso, e ci aggiriamo confusi nella città del frastuono che diventa sempre più invivibile.
Forse il silenzio ci fa paura, forse alla dolcezza tranquilla e riposante di un notturno di Chopin o a quello delle lettura di una poesia preferiamo l'aggressione assordante del rimbombo delle tivù, delle radioline, dei CD. dei motorini.
Forse anche noi, come Sartre, possiamo affermare che il silenzio è semplicemente qualcosa di mostruoso, perché ci mette a tu per tu con la nostra coscienza.
Siamo tutti schiavi delle parole parlate, anche di quelle gridate alla Grillo, che ci travolgono, delle parole comari che sporcano chi le dice e chi le ascolta. Le parole della poesia hanno invece bisogno di grandi boccate di silenzio, procedono assieme al silenzio e ne fanno un tutt'uno armonico.
Taci. Su le soglie / del bosco non odo / parole che dici / umane, ma odo / parole più nuove / che parlano gocciole e foglie / lontane. / Ascolta. Piove / dalle nuvole sparse. / Piove su le tamerici / salmastre ed aspre, / piove sui pini / scagliosi ed irti, / piove su i mirti / divini, / su le ginestre fulgenti / di fiori accolti, / su i ginepri folti / di coccole ardenti, / piove su i nostri volti / silvani, / piove su le nostre mani / ignude, / su i nostri vestimenti / leggeri..... ( Gabriele D'Annunzio, la pioggia nel pineto )
La pioggia nel pineto è la poesia del silenzio, del silenzio che ci parla sommessamente con il rumore della pioggia, che più sordo e più fioco / s'allenta, si spegne, / risorge, trema, si spegne, un rumore di croscio che varia / secondo la fronda / più folta, men folta.
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