Italo
Bonassi
L’inconscia consuetudine di esistere
Il nostro comportamento, al giorno d’oggi, è troppo spesso abitudine, e le notizie, i dati, i discorsi, si sfalsano, perdono colore e calore, fotocopie sbiadite della stessa fotografia. Liquidiamo qualsiasi modo di essere, per abitudine, e, forse, anche e soprattutto per superficialità, ma in parte anche per ignavia.
Per una voglia di lasciar perdere - cosa vuoi che m’importi? ma chi te lo fa fare, fregatene; - così ogni cosa sembra appartenere al già fatto, al già scritto, alla sincera stupidità del quotidiano, del ripetitivo. Vale un po’ per tutte le forme di comportamento, per quelle espressive ed anche gestuali. Chi fa questo o quest’altro, o quest’altro ancora, lo fa per abitudine, senza personalità, senza coraggio e senza coscienza di uscire dal banale, dall’anonimato. Tanto, lo si fa perché si deve farlo, è bene che venga fatto. Anche senz’accorgercene, come quando evitiamo meccanicamente, senza nessun ragionamento che ci sproni a farlo, una pozzanghera, e deviamo il piede, proseguendo poi a camminare senza averci fatto caso di avere evitato una pozzanghera. Riflessi quindi condizionati: pozzanghera = piede che devia. Come se il ragionamento l’avesse fatto il nostro piede, e non noi.
Siamo come marionette che si muovono in un teatrino. Altri è quello che ci fa muovere, noi eseguiamo supinamente senza ribellarci. Un manierismo comune alla cultura ( non la pensi come noi, tu che sei un intellettuale? allora non sei political correct ), alla politica, agli affari, alla morale, sembra emergere dalla nostra società, in questa prima parte di secolo così tormentato. Abituati, per consuetudine, al quotidiano, veniamo collocati, se non si devia il piede, dentro un qualunquismo di maniera che nuoce alla nostra produttività, alla nostra creatività, al nostro essere e appartenere. La superficialità sembra diventata un bene prezioso, e non ce ne stupiamo in questa continua sconfitta di valori che ci toglie il respiro della personalità.
L’inconscia consuetudine di esistere, più che di vivere, fa sì che ciò che si fa lo si faccia inconsciamente, quasi senza pensarci, come se fossero le cose a prendersi cura di noi, a trasportarci, e non noi a prenderci cura delle cose, le cose ( e i fatti ) a vivere noi, e non noi a vivere le cose e i fatti. Le cose e i fatti sono come i nostri piedi: ci pensano loro a deviare, non noi che li facciamo deviare. Sembra quasi che noi, vissuti dalle cose e dai fatti, siamo anche parlati, agiti, fatti, dalle cose, siamo non la mano che infila il guanto, ma il guanto infilato, siamo gli infilati e invece che muovere, siamo noi mossi.
Queste impressioni impersonano il nostro più netto rifiuto verso quanto è quotidiano, scontato, anonimo, insomma spersonalizzato.
Impariamo a scegliere, per Dio, con capacità critica e professionale, quanto di nuovo ancora si riesce a dare agli altri, quel qualche cosa ch’è solo nostro, non frutto della consuetudine scontata. C’è la moda di scrivere “non c’ha molto ormai da fare” invece di “non ci ha molto?, ebbene, scriviamo anche noi “non c’ha molto”, tanto, che te ne frega?
Eleggiamo invece tematiche, idee e comportamenti che, con una netta distinzione, siano ancora in grado di fornirci precise indicazioni su chi e su cosa; facciamola alla svelta, ogni giorno perso è una sconfitta per l’Uomo, quello che c’è dentro noi, che ha imparato a crescere e vuole liberarsi dai trampoli su cui è costretto a camminare dalla quotidianità della vita.
Contro la cultura della quotidianità, del “lo devi fare perché così si fa”, che è la cultura degli idioti. Tu lo devi fare non perché si fa, ma perché tu vuoi farlo.
Contro l’abuso soprattutto della quotidianità, dello scontato, per la realizzazione del personalizzato, anche noi, fiduciosi ( speriamo non stupidamente fiduciosi ) ci proiettiamo tra gli altri uomini, alzando la bandiera dell’antiquotidiano.
L’inconscia consuetudine di esistere
Forse la vita non è una cosa inutile,
un gocciare monotono di attimi
smaniosi di fuggire. Certo,
felicità mai colte,
dolcissime allegrezze di una vita
persa nel quotidiano delle cose,
nell’opaco tran tran di tutti i giorni,
sono un piccolo mondo che non amo.
Ma che importa, mi dici, tutto è effimero,
sii felice di vivere, ti basti
la meraviglia di vederti intorno
la luce del crepuscolo, le nuvole,
l’asta di una bandiera contro il cielo
caldo di un pomeriggio, le mimose
tutte in fiore nell’orto sotto casa,
l’ubriaco che canta per la strada…
Non so fingere di vivere, ti dico,
attaccato al midollo delle cose
di tutti i giorni. Odio
la quotidianità che mi perseguita,
il supplizio di vivere tranquillo
come se nulla fosse. Amo
la disperata volontà di vivere,
di credere nell’anima, di urlare
la mia felicità di uomo-dio.
Tolta l’eternità, che resta? Forse
l’inconscia consuetudine di esistere.
LO SCAFFALE
a cura di Italo Bonassi
MARIO LUZI
Poesia e fede
20. 10. 1914 – 28. 2. 2005
Luzi nasce a Castello ( Firenze) nel 1914. Trascorsa la sua prima infanzia a Siena, nel 1929 torna a Firenze, dove frequenta il Liceo Classico e termina gli studi, laureandosi nel 1936 in Letteratura Francese. Con Carlo Bo, Piero Bigongiari e Oreste Macrì è uno dei primi ad aderire alla corrente letteraria dell’Ermetismo, e ne diviene presto uno dei giovani poetipiù rappresentativi, iniziando a collaborare negli anni Trenta a prestigiose riviste, come Frontespizio, Campo di Marte, Letteratura, e altre, intonate a quel movimento.
Nel 1937 inizia l’insegnamento prima a Massa, poi a Parma. Nel 1941 si trasferisce a San Miniato, e nel 1945 a Firenze, sempre come insegnante. Nel 1962 è chiamato alla cattedra di Letteratura Francese e poi di Letterature comparate presso l’Università di Urbino. Nel 2004 il Capo dello Stato Ciampi lo nomina senatore a vita. Muore a Firenze il 28 febbraio del 2005.
In quest’epoca di spreco verbale, in cui il delirio dei linguaggi, la ricerca quasi spasmodica dell’assoluta originalità e novità del verso porta ad una specie di poesia-non poesia od antipoesia, - complici, e questo è grave, anche alcuni poeti già affermati a livello nazionale e oltre, e il Gruppo 63 certamente è il principale colpevole, con la trasformazione della poesia in una sorta di fucina di esperimenti illogici, assurdi, incomprensbili che hanno allontanato dalla poesia una certa parte di lettori - in quest’epoca, dicevo, di svilimento della parola fino all’insignificanza, parlare di poesia e fede non è facile, sembra andare contro corrente.
Parlare di poesia religiosa, poi, in questa contingenza storica in cui la maggioranza dei poeti ma anche narratori italiani a livello nazionale, fatta eccezione per Mario Luzi e pochi altri, appartengono o sono appartenuti a una matrice ideologica materialistica e quindi tendenzialmente areligiosa, non è cosa semplice. Il pensiero occidentale moderno, ed anche contemporaneo, ha per gran parte rotto il rapporto simbolico-religioso della natura e va per nuove vie d'interpretazione al di fuori della metafisica, la grande madre del pensiero di noi occidentali. Probabilmente per un senso di smarrimento, per una difficoltà a proporre altre risposte ai quesiti esistenziali. Cristo, per molti tra i cristiani, non è più quello che avevamo appreso dai nostri genitori, ma è un semplice profeta, un maestro di vita, se vogliamo. Più che il crollo del muro di Berlino, il crollo dei principi della fede è un dato di fatto inoppugnabile.
Difficile che nascano altri poeti d’ispirazione religiosa nel vero senso della parola, come un Clemente Rebora o un Davide Turoldo. Ma costoro erano anche sacerdoti, quindi ispirati dal sostegno della loro voca zione. Ma difficile che nascano anche scrittori con la fede salda di un Alessandro Manzoni, tanto per citare un laico. Unico poeta laico del 900 che si può inserire, assieme a Carlo Bettocchi, tra quelli ispirati dalla fede, il più grande per me del ‘900 assieme ad Eugenio Montale, è Mario Luzi. Parlo naturalmente dei poeti che hanno fatto grande la poesia italiana contemporanea. C’èperò da dire che l’ansia metafisica non ha esaurito nei poeti italiani contemporanei il suo anelito. Quella no, trapela qua e là nei versi, magari sconfinando in forme di esoterismo, di magia, o mascherandosi dietro dogmi ideologici e sociologici. Una ricerca del soprannaturale, dell’escatologico che parte spesso dall’aridità del pensiero materialista e procede penosamente, quasi con angoscia, nel tentativo di scoprire al di là del nostro piccolo mondo un qualche cosa di grande e di sublime, che non sia solo un sogno, una speranza.
Eugenio Montale,tipico rappresentante della poesia diciamo laica, ad esempio di fronte all’assurdo del problema esistenziale, cerca un varco per l'aldilà. Avevamo studiato pe l'aldilà / un fischio, un segno di riconoscimento. / Mi provo a modularlo nella speranza / che tutti siamo già morti senza saperlo.
La consapevolezza di un qualcosa che possa esistere di là, oltre la materia, nonostante la sua fede di non credente, gli fa scrivere alcuni versi sofferti di grande poesia:
Il viaggio finisce qui: / nelle cure meschine che dividono / l’anima che non sa più dare un
grido…. / Il viaggio finisce a
questa spiaggia / che tentano gli
assidui e lenti flussi. / Nulla disvela se non pigri fumi / la marina, che tramano di conche / i soffi lenti…
/ Il cammino finisce a queste prode / che rode la marea col moto alterno. /
Il tuo cuore vicino che non m’ode / salpa già forse per l’eterno. ( Da: Casa sul Mare – Ossi di seppia )
Nell’ultima parola, in quell’eterno detto quasi come un’appendice, un filo di speranza, c’è il dramma di un poeta che non sa, ma magari vorrebbe credere.
Un’altra poesia emblematica di Montale, nella silloge Mediterraneo, dice: Noi non sappiamo quale sortiremo / domani, oscuro o
lieto; forse il nostro cammino / a
non tocche radure ci addurrà / dove mormori eterna l’acqua di giovinezza / o
sarà forse un discendere / fino al
vallo estremo, / nel buio, perso
il ricordo del mattino…
La speranza di un Eden in un domani che non si sa se sarà lieto od oscuro, un Eden della Bibbia, con la fonte dell’acqua dell’eterna giovinezza. O la paura di una discesa in un vallo
estremo.
Speranza e paura di uno che forse non sa neppure lui di credere.
La desolazione del pensiero moderno, che rappresenta il fallimento della promessa di felicità, Mario Luzi la interpreta in una splendida poesia ( Sulla riva ) come pontili deserti chescavalcano le ondate e dove anche il lupo di mare si fa cupo.
Che fai?, dice Mario Luzi
Aggiungo olio alla lucerna, / tengo
desta la stanza in cui mi trovo / all’oscuro di te e dei tuoi cari.
Le ondate cui accenna sono quelle distruttive del pensiero nichilista, visto in un’immagine drammatica e magnifica insieme.
La brigata dispersa si
raccoglie, / si conta dopo queste mareggiate. L’uomo
del faro esce con la barca, /
perlustra, va verso
l’aperto.
Cosa devono fare gli uomini che, come Luzi, mai hanno smesso di credere? Devono aggiungere olio alla lanterna, tenendo desta la stanza, ossia la fede in cui si trova la speranza. Chi è sopravvissuto alla non-fede, si raccoglie, si conta. E il poeta, per Luzi, è uno di quelli che aggiungono olio alla lucerna. Il poeta interprete di una poesia che sia canto di fede e d’amore. Colui che come l’uomo del faro esce dopo la mareggiata a vedere di raccogliere l’eredità della nostra
cultura bimillenaria.
Sulla riva
I pontili scavalcano le ondate,
anche il lupo di mare si fa cupo.
Che fai? Aggiungo olio alla llucerna,,
tengo desta la stanza in cui mi trovo
all’oscuro di te e dei tuoi cari.
La brigata dispersa si raccoglie
si conta dopo queste mareggiate.
Tu dove sei? Ti spero in qualche porto...
L’uomo del faro esce con la barca,
scruta, perlustra, va verso l’aperto.
Il tempo e il mare hanno di queste pause.
Una grande opera religiosa di Mario Luzi, forse la più toccante ed elevata spiritualmente, è La Passione, via Crucis al Colosseo, propostagli dalle autorità vaticane in occasione della Pasqua del 1999, avente per tema la Passione di Gesù: un volumetto di una settantina di pagine, un’altissima meditazione
sull’incarnazione, la morte e la resurrezione di Gesù.
Padre
mio, mi sono affezionato alla terra quanto non avrei creduto. / È bella e
terribile la terra, / io ci sono nato quasi di nascosto, / ci sono cresciuto e
fatto adulto / in un suo angolo quieto / tra gente povera, amabile e esecrabile.
/ Mi sono affezionato alle sue strade, / mi sono diventati cari i poggi e gli
uliveti, / le vigne, perfino i deserti. / Padre, no giudicarlo / questo mio
parlarti umano quasi delirante, / accoglilo come un desiderio d’amore, / non
guardare alla sua insensatezza. / Sono
venuto sulla terra per fare la tua volontà / eppure talvolta l’ho
discussa. / Sii indulgente con la mia debolezza, te ne prego. / Mi afferrano, mi
alzano alla croce piantata sulla collina, / ahi Padre, mi inchiodano le mani e i
piedi. / Qui termina veramente il mio cammino. / Il debito dell’iniquità è
pagato all’iniquità. / Ma Tu sai questo mistero. Questo solo.
Il pensiero di Luzi si riflette nelle fonti di un determinismo religioso che ha sapori platonico-agostiniani ( hanno scritto anche giansenistico-manzoniani e danteschi ), dove la memoria è il "ricordo puro” ( …ricordo senza limiti, / ricordo senza corpi né ombre ) che fa da "strumento mediatore” del suo “fervore-certezza”, risolto in un incredibile " slancio interiore”, o “febbre” o “straripante desiderio” del salire: Può tante volte essere stata alta / questa febbre, e salire, salire ancora...
A CHE SERVE LA POESIA?
Ma la poesia è utile, serve a qualche cosa? Mah... utile è un aggettivo che riguarda il verbo avere.
Utili sono le cose, gli oggetti, può esserlo anche un sasso ( vedi l'utilizzo da parte di certe frange estremistiche, o, in un modo non violento, a spaccare una noce ). Ma la poesia non è un oggetto e non si può "avere". Non si può adoperarla nel senso stretto di tale verbo, non serve a niente. Ma è in noi, fa parte del nostro essere, è lei che ci "ha", dentro, nel nostri inconscio.
Il grande poeta greco Ghianis Ritsos si è chiesto: Coe fanno gli uomini a vivere senza la poesia?
...Una grande mano invisibile sollevava le sedie / due palmi da terra. Come fanno gli uomini / a vivere senza la poesia?
Si è scritto che la poesia fa del linguaggio della mente e di quello del corpo un unico linguaggio, che accorda cioè anima e corpo. Un accordo insomma tra il nostro io razionale ( il conscio ) e quello irrazionale ( l'inconscio ).
In una società che valorizza soprattutto l'utile, la non utilità della poesia diventa sempre più indispensabile.
E allora, scriviamole pure le nostre inutili poesie, andiamo contro corrente, facendone dono a chi le legge, perché non è detto che l'inutile dei nostri versi non serva a qualche cosa, a esaltare il preziosisssimo apporto dell'inutilità in un mondo alla frenetica ricerca dell'utile. Una inutilità di sensazioni , emozioni, immagini, di memorie ammucchiate come un magazzino in attesa di creare ulteriori emozioni e ulteriori immagini.
La vera poesia sa scoprire un linguaggio che pare obsoleto, fine a sé stesso, parole desuete, riesumate, che sanno dare immagini nuove, un di più di luci e di colori, di mitico, di mistico, di spirituale.
Anche una pietra, una vite spanata, una tazzina sbeccata, possono assumere con il poeta un qualcosa di nobile, una sacratlià di una misteriosa e affabulante bellezza.
Sasso, / come tanti altri / milioni, / miliardi di sassi. / Eppure / a questo sasso / banale, / stupido, / a questa cosa / senza scopo / e senza motivo di essere, / io dedico / quattro righe piene di amore. / Sasso, / ti amo / nella tua nullità / di cosa / che sa solo esistere.
Un giorno, non so come, hanno trovato / un minuzzolo d'eternità in un orto / tra le foglie di un sedano e un'ortica, / perché anche le cose umili e discrete / come i cavoli e le rape, sono eterne, / di un'eternità fatta di niente.
La poesia può essere un microscopio: contempla il piccolissimo e fragile filo d'erba e lo fa diventare più importante di una quercia, di una foresta, e fa riempire del canto di un uccellino l'intera platea dell'universo.
Così afferma Renè Cha, là dove dice:
Un uccello canta su un filo / la vita semplice, a fior di terra. / Il nostro inferno se ne ricrea. / Poi il vento comincia a soffrire; / e le stelle se ne accorgono. / Oh pazze, a percorrere / tanta fatalità profonda!
E tutto questo è davvero molto bello, ma anche molto inutile. Cosa importano, al mondo, l'uccello e il filo d'erba? Cosa gl'importano il vento e le stelle? Il mondo ha tante altre cose cui pensare, cose serie, utili, e non ha tempo da perdere per l'inutilità.
A noi, che scriviamo poesia, l'inutilità invece piace e interessa da matti. Noi siamo immersi fino in fondo nelle grandi problematiche esistenziali delle piccole cose inutili, a noi interessa l'eternità di un pennino rotto, o quella delle rape e dei cavoli, il dolore di un grillo, la felicità di uno zampillo d'acqua di una fontana, la tristezza del rubinetto che perde. Noi, inutili cantori dell'inutilità. Se non fosse coì, non scriveremmo in poesia, ma in prosa.
L’inconscia consuetudine di esistere
Il nostro comportamento, al giorno d’oggi, è troppo spesso abitudine, e le notizie, i dati, i discorsi, si sfalsano, perdono colore e calore, fotocopie sbiadite della stessa fotografia. Liquidiamo qualsiasi modo di essere, per abitudine, e, forse, anche e soprattutto per superficialità, ma in parte anche per ignavia.
Per una voglia di lasciar perdere - cosa vuoi che m’importi? ma chi te lo fa fare, fregatene; - così ogni cosa sembra appartenere al già fatto, al già scritto, alla sincera stupidità del quotidiano, del ripetitivo. Vale un po’ per tutte le forme di comportamento, per quelle espressive ed anche gestuali. Chi fa questo o quest’altro, o quest’altro ancora, lo fa per abitudine, senza personalità, senza coraggio e senza coscienza di uscire dal banale, dall’anonimato. Tanto, lo si fa perché si deve farlo, è bene che venga fatto. Anche senz’accorgercene, come quando evitiamo meccanicamente, senza nessun ragionamento che ci sproni a farlo, una pozzanghera, e deviamo il piede, proseguendo poi a camminare senza averci fatto caso di avere evitato una pozzanghera. Riflessi quindi condizionati: pozzanghera = piede che devia. Come se il ragionamento l’avesse fatto il nostro piede, e non noi.
Siamo come marionette che si muovono in un teatrino. Altri è quello che ci fa muovere, noi eseguiamo supinamente senza ribellarci. Un manierismo comune alla cultura ( non la pensi come noi, tu che sei un intellettuale? allora non sei political correct ), alla politica, agli affari, alla morale, sembra emergere dalla nostra società, in questa prima parte di secolo così tormentato. Abituati, per consuetudine, al quotidiano, veniamo collocati, se non si devia il piede, dentro un qualunquismo di maniera che nuoce alla nostra produttività, alla nostra creatività, al nostro essere e appartenere. La superficialità sembra diventata un bene prezioso, e non ce ne stupiamo in questa continua sconfitta di valori che ci toglie il respiro della personalità.
L’inconscia consuetudine di esistere, più che di vivere, fa sì che ciò che si fa lo si faccia inconsciamente, quasi senza pensarci, come se fossero le cose a prendersi cura di noi, a trasportarci, e non noi a prenderci cura delle cose, le cose ( e i fatti ) a vivere noi, e non noi a vivere le cose e i fatti. Le cose e i fatti sono come i nostri piedi: ci pensano loro a deviare, non noi che li facciamo deviare. Sembra quasi che noi, vissuti dalle cose e dai fatti, siamo anche parlati, agiti, fatti, dalle cose, siamo non la mano che infila il guanto, ma il guanto infilato, siamo gli infilati e invece che muovere, siamo noi mossi.
Queste impressioni impersonano il nostro più netto rifiuto verso quanto è quotidiano, scontato, anonimo, insomma spersonalizzato.
Impariamo a scegliere, per Dio, con capacità critica e professionale, quanto di nuovo ancora si riesce a dare agli altri, quel qualche cosa ch’è solo nostro, non frutto della consuetudine scontata. C’è la moda di scrivere “non c’ha molto ormai da fare” invece di “non ci ha molto?, ebbene, scriviamo anche noi “non c’ha molto”, tanto, che te ne frega?
Eleggiamo invece tematiche, idee e comportamenti che, con una netta distinzione, siano ancora in grado di fornirci precise indicazioni su chi e su cosa; facciamola alla svelta, ogni giorno perso è una sconfitta per l’Uomo, quello che c’è dentro noi, che ha imparato a crescere e vuole liberarsi dai trampoli su cui è costretto a camminare dalla quotidianità della vita.
Contro la cultura della quotidianità, del “lo devi fare perché così si fa”, che è la cultura degli idioti. Tu lo devi fare non perché si fa, ma perché tu vuoi farlo.
Contro l’abuso soprattutto della quotidianità, dello scontato, per la realizzazione del personalizzato, anche noi, fiduciosi ( speriamo non stupidamente fiduciosi ) ci proiettiamo tra gli altri uomini, alzando la bandiera dell’antiquotidiano.
L’inconscia consuetudine di esistere
Forse la vita non è una cosa inutile,
un gocciare monotono di attimi
smaniosi di fuggire. Certo,
felicità mai colte,
dolcissime allegrezze di una vita
persa nel quotidiano delle cose,
nell’opaco tran tran di tutti i giorni,
sono un piccolo mondo che non amo.
Ma che importa, mi dici, tutto è effimero,
sii felice di vivere, ti basti
la meraviglia di vederti intorno
la luce del crepuscolo, le nuvole,
l’asta di una bandiera contro il cielo
caldo di un pomeriggio, le mimose
tutte in fiore nell’orto sotto casa,
l’ubriaco che canta per la strada…
Non so fingere di vivere, ti dico,
attaccato al midollo delle cose
di tutti i giorni. Odio
la quotidianità che mi perseguita,
il supplizio di vivere tranquillo
come se nulla fosse. Amo
la disperata volontà di vivere,
di credere nell’anima, di urlare
la mia felicità di uomo-dio.
Tolta l’eternità, che resta? Forse
l’inconscia consuetudine di esistere.
LO SCAFFALE
a cura di Italo Bonassi
MARIO LUZI
Poesia e fede
20. 10. 1914 – 28. 2. 2005
Luzi nasce a Castello ( Firenze) nel 1914. Trascorsa la sua prima infanzia a Siena, nel 1929 torna a Firenze, dove frequenta il Liceo Classico e termina gli studi, laureandosi nel 1936 in Letteratura Francese. Con Carlo Bo, Piero Bigongiari e Oreste Macrì è uno dei primi ad aderire alla corrente letteraria dell’Ermetismo, e ne diviene presto uno dei giovani poetipiù rappresentativi, iniziando a collaborare negli anni Trenta a prestigiose riviste, come Frontespizio, Campo di Marte, Letteratura, e altre, intonate a quel movimento.
Nel 1937 inizia l’insegnamento prima a Massa, poi a Parma. Nel 1941 si trasferisce a San Miniato, e nel 1945 a Firenze, sempre come insegnante. Nel 1962 è chiamato alla cattedra di Letteratura Francese e poi di Letterature comparate presso l’Università di Urbino. Nel 2004 il Capo dello Stato Ciampi lo nomina senatore a vita. Muore a Firenze il 28 febbraio del 2005.
In quest’epoca di spreco verbale, in cui il delirio dei linguaggi, la ricerca quasi spasmodica dell’assoluta originalità e novità del verso porta ad una specie di poesia-non poesia od antipoesia, - complici, e questo è grave, anche alcuni poeti già affermati a livello nazionale e oltre, e il Gruppo 63 certamente è il principale colpevole, con la trasformazione della poesia in una sorta di fucina di esperimenti illogici, assurdi, incomprensbili che hanno allontanato dalla poesia una certa parte di lettori - in quest’epoca, dicevo, di svilimento della parola fino all’insignificanza, parlare di poesia e fede non è facile, sembra andare contro corrente.
Parlare di poesia religiosa, poi, in questa contingenza storica in cui la maggioranza dei poeti ma anche narratori italiani a livello nazionale, fatta eccezione per Mario Luzi e pochi altri, appartengono o sono appartenuti a una matrice ideologica materialistica e quindi tendenzialmente areligiosa, non è cosa semplice. Il pensiero occidentale moderno, ed anche contemporaneo, ha per gran parte rotto il rapporto simbolico-religioso della natura e va per nuove vie d'interpretazione al di fuori della metafisica, la grande madre del pensiero di noi occidentali. Probabilmente per un senso di smarrimento, per una difficoltà a proporre altre risposte ai quesiti esistenziali. Cristo, per molti tra i cristiani, non è più quello che avevamo appreso dai nostri genitori, ma è un semplice profeta, un maestro di vita, se vogliamo. Più che il crollo del muro di Berlino, il crollo dei principi della fede è un dato di fatto inoppugnabile.
Difficile che nascano altri poeti d’ispirazione religiosa nel vero senso della parola, come un Clemente Rebora o un Davide Turoldo. Ma costoro erano anche sacerdoti, quindi ispirati dal sostegno della loro voca zione. Ma difficile che nascano anche scrittori con la fede salda di un Alessandro Manzoni, tanto per citare un laico. Unico poeta laico del 900 che si può inserire, assieme a Carlo Bettocchi, tra quelli ispirati dalla fede, il più grande per me del ‘900 assieme ad Eugenio Montale, è Mario Luzi. Parlo naturalmente dei poeti che hanno fatto grande la poesia italiana contemporanea. C’èperò da dire che l’ansia metafisica non ha esaurito nei poeti italiani contemporanei il suo anelito. Quella no, trapela qua e là nei versi, magari sconfinando in forme di esoterismo, di magia, o mascherandosi dietro dogmi ideologici e sociologici. Una ricerca del soprannaturale, dell’escatologico che parte spesso dall’aridità del pensiero materialista e procede penosamente, quasi con angoscia, nel tentativo di scoprire al di là del nostro piccolo mondo un qualche cosa di grande e di sublime, che non sia solo un sogno, una speranza.
Eugenio Montale,tipico rappresentante della poesia diciamo laica, ad esempio di fronte all’assurdo del problema esistenziale, cerca un varco per l'aldilà. Avevamo studiato pe l'aldilà / un fischio, un segno di riconoscimento. / Mi provo a modularlo nella speranza / che tutti siamo già morti senza saperlo.
La consapevolezza di un qualcosa che possa esistere di là, oltre la materia, nonostante la sua fede di non credente, gli fa scrivere alcuni versi sofferti di grande poesia:
Il viaggio finisce qui: / nelle cure meschine che dividono / l’anima che non sa più dare un
grido…. / Il viaggio finisce a
questa spiaggia / che tentano gli
assidui e lenti flussi. / Nulla disvela se non pigri fumi / la marina, che tramano di conche / i soffi lenti…
/ Il cammino finisce a queste prode / che rode la marea col moto alterno. /
Il tuo cuore vicino che non m’ode / salpa già forse per l’eterno. ( Da: Casa sul Mare – Ossi di seppia )
Nell’ultima parola, in quell’eterno detto quasi come un’appendice, un filo di speranza, c’è il dramma di un poeta che non sa, ma magari vorrebbe credere.
Un’altra poesia emblematica di Montale, nella silloge Mediterraneo, dice: Noi non sappiamo quale sortiremo / domani, oscuro o
lieto; forse il nostro cammino / a
non tocche radure ci addurrà / dove mormori eterna l’acqua di giovinezza / o
sarà forse un discendere / fino al
vallo estremo, / nel buio, perso
il ricordo del mattino…
La speranza di un Eden in un domani che non si sa se sarà lieto od oscuro, un Eden della Bibbia, con la fonte dell’acqua dell’eterna giovinezza. O la paura di una discesa in un vallo
estremo.
Speranza e paura di uno che forse non sa neppure lui di credere.
La desolazione del pensiero moderno, che rappresenta il fallimento della promessa di felicità, Mario Luzi la interpreta in una splendida poesia ( Sulla riva ) come pontili deserti chescavalcano le ondate e dove anche il lupo di mare si fa cupo.
Che fai?, dice Mario Luzi
Aggiungo olio alla lucerna, / tengo
desta la stanza in cui mi trovo / all’oscuro di te e dei tuoi cari.
Le ondate cui accenna sono quelle distruttive del pensiero nichilista, visto in un’immagine drammatica e magnifica insieme.
La brigata dispersa si
raccoglie, / si conta dopo queste mareggiate. L’uomo
del faro esce con la barca, /
perlustra, va verso
l’aperto.
Cosa devono fare gli uomini che, come Luzi, mai hanno smesso di credere? Devono aggiungere olio alla lanterna, tenendo desta la stanza, ossia la fede in cui si trova la speranza. Chi è sopravvissuto alla non-fede, si raccoglie, si conta. E il poeta, per Luzi, è uno di quelli che aggiungono olio alla lucerna. Il poeta interprete di una poesia che sia canto di fede e d’amore. Colui che come l’uomo del faro esce dopo la mareggiata a vedere di raccogliere l’eredità della nostra
cultura bimillenaria.
Sulla riva
I pontili scavalcano le ondate,
anche il lupo di mare si fa cupo.
Che fai? Aggiungo olio alla llucerna,,
tengo desta la stanza in cui mi trovo
all’oscuro di te e dei tuoi cari.
La brigata dispersa si raccoglie
si conta dopo queste mareggiate.
Tu dove sei? Ti spero in qualche porto...
L’uomo del faro esce con la barca,
scruta, perlustra, va verso l’aperto.
Il tempo e il mare hanno di queste pause.
Una grande opera religiosa di Mario Luzi, forse la più toccante ed elevata spiritualmente, è La Passione, via Crucis al Colosseo, propostagli dalle autorità vaticane in occasione della Pasqua del 1999, avente per tema la Passione di Gesù: un volumetto di una settantina di pagine, un’altissima meditazione
sull’incarnazione, la morte e la resurrezione di Gesù.
Padre
mio, mi sono affezionato alla terra quanto non avrei creduto. / È bella e
terribile la terra, / io ci sono nato quasi di nascosto, / ci sono cresciuto e
fatto adulto / in un suo angolo quieto / tra gente povera, amabile e esecrabile.
/ Mi sono affezionato alle sue strade, / mi sono diventati cari i poggi e gli
uliveti, / le vigne, perfino i deserti. / Padre, no giudicarlo / questo mio
parlarti umano quasi delirante, / accoglilo come un desiderio d’amore, / non
guardare alla sua insensatezza. / Sono
venuto sulla terra per fare la tua volontà / eppure talvolta l’ho
discussa. / Sii indulgente con la mia debolezza, te ne prego. / Mi afferrano, mi
alzano alla croce piantata sulla collina, / ahi Padre, mi inchiodano le mani e i
piedi. / Qui termina veramente il mio cammino. / Il debito dell’iniquità è
pagato all’iniquità. / Ma Tu sai questo mistero. Questo solo.
Il pensiero di Luzi si riflette nelle fonti di un determinismo religioso che ha sapori platonico-agostiniani ( hanno scritto anche giansenistico-manzoniani e danteschi ), dove la memoria è il "ricordo puro” ( …ricordo senza limiti, / ricordo senza corpi né ombre ) che fa da "strumento mediatore” del suo “fervore-certezza”, risolto in un incredibile " slancio interiore”, o “febbre” o “straripante desiderio” del salire: Può tante volte essere stata alta / questa febbre, e salire, salire ancora...
A CHE SERVE LA POESIA?
Ma la poesia è utile, serve a qualche cosa? Mah... utile è un aggettivo che riguarda il verbo avere.
Utili sono le cose, gli oggetti, può esserlo anche un sasso ( vedi l'utilizzo da parte di certe frange estremistiche, o, in un modo non violento, a spaccare una noce ). Ma la poesia non è un oggetto e non si può "avere". Non si può adoperarla nel senso stretto di tale verbo, non serve a niente. Ma è in noi, fa parte del nostro essere, è lei che ci "ha", dentro, nel nostri inconscio.
Il grande poeta greco Ghianis Ritsos si è chiesto: Coe fanno gli uomini a vivere senza la poesia?
...Una grande mano invisibile sollevava le sedie / due palmi da terra. Come fanno gli uomini / a vivere senza la poesia?
Si è scritto che la poesia fa del linguaggio della mente e di quello del corpo un unico linguaggio, che accorda cioè anima e corpo. Un accordo insomma tra il nostro io razionale ( il conscio ) e quello irrazionale ( l'inconscio ).
In una società che valorizza soprattutto l'utile, la non utilità della poesia diventa sempre più indispensabile.
E allora, scriviamole pure le nostre inutili poesie, andiamo contro corrente, facendone dono a chi le legge, perché non è detto che l'inutile dei nostri versi non serva a qualche cosa, a esaltare il preziosisssimo apporto dell'inutilità in un mondo alla frenetica ricerca dell'utile. Una inutilità di sensazioni , emozioni, immagini, di memorie ammucchiate come un magazzino in attesa di creare ulteriori emozioni e ulteriori immagini.
La vera poesia sa scoprire un linguaggio che pare obsoleto, fine a sé stesso, parole desuete, riesumate, che sanno dare immagini nuove, un di più di luci e di colori, di mitico, di mistico, di spirituale.
Anche una pietra, una vite spanata, una tazzina sbeccata, possono assumere con il poeta un qualcosa di nobile, una sacratlià di una misteriosa e affabulante bellezza.
Sasso, / come tanti altri / milioni, / miliardi di sassi. / Eppure / a questo sasso / banale, / stupido, / a questa cosa / senza scopo / e senza motivo di essere, / io dedico / quattro righe piene di amore. / Sasso, / ti amo / nella tua nullità / di cosa / che sa solo esistere.
Un giorno, non so come, hanno trovato / un minuzzolo d'eternità in un orto / tra le foglie di un sedano e un'ortica, / perché anche le cose umili e discrete / come i cavoli e le rape, sono eterne, / di un'eternità fatta di niente.
La poesia può essere un microscopio: contempla il piccolissimo e fragile filo d'erba e lo fa diventare più importante di una quercia, di una foresta, e fa riempire del canto di un uccellino l'intera platea dell'universo.
Così afferma Renè Cha, là dove dice:
Un uccello canta su un filo / la vita semplice, a fior di terra. / Il nostro inferno se ne ricrea. / Poi il vento comincia a soffrire; / e le stelle se ne accorgono. / Oh pazze, a percorrere / tanta fatalità profonda!
E tutto questo è davvero molto bello, ma anche molto inutile. Cosa importano, al mondo, l'uccello e il filo d'erba? Cosa gl'importano il vento e le stelle? Il mondo ha tante altre cose cui pensare, cose serie, utili, e non ha tempo da perdere per l'inutilità.
A noi, che scriviamo poesia, l'inutilità invece piace e interessa da matti. Noi siamo immersi fino in fondo nelle grandi problematiche esistenziali delle piccole cose inutili, a noi interessa l'eternità di un pennino rotto, o quella delle rape e dei cavoli, il dolore di un grillo, la felicità di uno zampillo d'acqua di una fontana, la tristezza del rubinetto che perde. Noi, inutili cantori dell'inutilità. Se non fosse coì, non scriveremmo in poesia, ma in prosa.