LA LINGUA DI MEZZO
Ha scritto il glottologo Carlo Donisotti che la letteratura è stata "il più forte elemento unitario": l'italiano sarebbe stato per secoli una lingua unicamente scritta e posseduta da pochi, sovrastata da una "selva" di idiomi locali, parlati ma, salvo eccezioni, non scritti. L'avvenuta unificazione politica non coincise con quella linguistica, che si ebbe in seguito con la scolarizzazione, la diffusione della stampa, la crescita dell'industria e la relativa migrazione interna, che portò una parte della popolazione rurale, generalmente analfabeta. ad andare a lavorare in città.
L'avvento poi della televisione ( anni '50 ), con la sua forza attrattiva, ha giocato un ruolo decisivo nella conoscenza della lingua nazionale in tutta la penisola.
Enrico Testa, docente di Storia delle lingue all'Università di Genova, in un suo studio uscito con la Einaudi, "L'italiano nascosto", ci propone un'interpretzione delle vicende dell'italiano del tutto diversa, più sfumata, con numerosi documenti, alcuni dei quali rari o inediti. Nega che ci sia stata in epoca preunitaria una "bipartizione tra letterati e rozzi parlanti dialettali".
Esisteva nei secoli passati una lingua intermedia, d'uso pratico, che permetteva "una comunicazione tra scriventi e parlanti di luoghi e strati sociali differenti e distanti." E' quello che sosteneva Ugo Foscolo, quando parlava di una lingua scritta comune, corrente e vivissima in tutte le province, da Torino a Palermo, scorretta, deforme, una paraletteratura : "una lingua d'espediente, suggerita da' bisogni primari quotidiani, diversa in tutto dai dialetti provinciali e municipali, e che serba alcune qualità bastarde di tutti."
Chiamiamola un terzo polo, una lingua scritta in grado di permettere i contatti e gli scambi tra regioni e genti di diversa cultura. Una lingua di mezzo che Tommaso Landolfi chiamò italiano pidocchiale e che si può far risalire fino alla prosa del Duecento ( vedi il Decameron del Boccaccio ). Una protolingua italiana scritta che è vissuta per secoli e che, a detta degli studiosi, ha spinto anche una grande massa di semicolti, né analfabeti totali né colti, a scrivere.
A questi anonimi semicolti si deve "l'importante opera di commistione tra il parlato e lo scritto, una lingua a metà tra l'italiano normativo e il dialetto".
Si hanno ad esempio testimonianze di ciabattini che recitano Dante e di gondolieri che cantano le arie del Metastasio. I cosiddetti semicolti ( mercanti, parroci, frati itineranti, pseudomedici, maestri irregolari ) si avvalevano di queste letture in lingua di mezzo, diffuse a livello popolare, come romanzi d'amore, d'avventura, leggende, una paraletteratura piuttosto semplice ma efficace ( storie del mugnaio friulano Menocchio, messo a morte per eresia, leggende di streghe, di briganti, di paladini e saraceni, versioni semplificate delle commedie del Boccaccio ). Notai, avvocati, religiosi, per farsi capire, si adattavano pur'essi al livello linguistico più domestico e famigliare del "popolino" compilando nella lingua di mezzo atti notarili ed altro.
Dobbiamo davvero molto a questi frati itineranti, a questi maestri improvvisati, che insegnavano l'alfabeto e i rudimenti della lingua alle classi meno abbienti se l'italiano scritto, da povera lingua d'espediente, è diventato l'italiano colto, capito anche se non parlato, da tutti.
Italo Bonassi
( da: Quaderni, bimestrale del Gruppo Poesia 83, anno XVIII, marzo - aprile 2014. )
Il piede e la pozzanghera
Il nostro comportamento a volte è abitudinario, e liquidiamo qualsiasi modo di essere per superficialità, menefreghismo o ignavia. Una voglia di lasciar perdere ( cosa vuoi che m'importa? frègatene, ma chi te lo fa fare? ), tanto che ogni cosa sembra appartenere al già fatto, al già scritto, alla stupidità del quotidiano, del ripetitivo. Ciò vale un po' per tutte le forme di comportamento, per quelle espressive ed anche gestuali. Chi fa questo o quest'altro, o quest'altro ancora, lo fa per abitudine, senza personalità, senza coraggio o senza coscienza di uscire dal banale, dall'anonimato. Tanto, lo si fa perché lo si deve fare, è giusto che venga fatto. Anche senza accorgercene.
Pensate infatti a quando, nel camminare per strada, si evita meccanicamente, senza alcun ragionamento che ci sproni a farlo, anzi, senza la coscienza di stare a farlo, una pozzanghera, e si devia il piede, proseguendo poi a camminare senza aver fatto caso di averla evitata. L'automatismo dei riflessi condizionati:
pozzanghera = piede che devia
Come se il ragionamento l'avesse fatto il piede, e non noi.
Siamo come marionette che si muovono in un teatrino. Altri è colui che ci fa muovere, noi eseguiamo supinamente senza ribellarci.
Il bambino che non devia il piede ma lo inzacchera ben bene nella pozzanghera, lo fa perché lo vuole fare, desidera fare l'esperienza del piede inzaccherato, la curosità di cosa si prova è per lui più forte del riflesso condizionato di deviare il piede. Si potrebbe quasi dire che la curiosità della sensazione del piede nella pozzanghera è il riflesso condizionato, automatico, della voglia della scoperta. E che per riflesso condizionato non devia il piede ma va a cacciarlo nella pozzanghera.
Siamo succubi di un manierismo comune alla cultura ( "non la pensi come noi, tu che sei un intellettuale? allora non sei un politically correct! " ), alla politica, agli affari, alla morale ( "come? non sei anche tu per i matrimoni omosessuli? non ti piace che si eliminino le parole papà e mamma e che al posto loro si mettano genitore 1 e genitore 2 ? ma allora sei un fascista! " ), un manierismo che sembra emergere dalla nostra società in questa prima parte di secolo così tormentato ).
Abituati, per ignavia, al quotidiano, veniamo collocati, se non si devia il piede, dentro un qualunquismo di maniera che nuoce alla nostra produttività, alla nostra creatività, al nostro essere e appartenere. La superficialità sembra diventata un bene prezioso, e non ce ne stupiamo in questa continau sconfitta di valori che ci toglie il respiro della personalità.
Italo Bonassi
( da: Quaderni, n° 4, luglio 2013 )
I FATTI DI CRIMEA
ma la sovranità popolare conta o no?
Auguriamoci che alla fine tutto vada al meglio, e che le cosiddette potenze mondiali mettano la testa a posto.Guai
se si tornasse alla guerra fredda tra Stati Uniti e Russia, sarebbe la fine.
La Crimea a noi italiani non può non evocare il generale Alessandro Lamarmora e il contingente di 15 mila bersaglieri piemontesi che, da lui appena fondato, partecipò assieme a truppe inglesi e francesi, tra il 1853 e il 1856, alla cosiddetta guerra di Crimea. Che poi si rivelò infausta per il generale, che in quell'occasione si ammalò e morì di peste.
Capitale della Crimea Simferopoli, altri centri importanti Sebastopoli, grande porto militare, e Kerc.
Per puro amore di verità, occorre dire che la maggioranza della popolazione della Crimea è di origine e lingua russa e che da secoli orbita anche sentimentalmente in area russa, non ucraina.
Proprio domenica 16 marzo vi si è svolto il referendum, e oltre il 90% degli abitanti ha scelto di passare, o meglio di tornare alla Russia.
Vediamo, secondo dati di 3 anni fa, qual'è la composizione etnica della Crimea:
popolazione di lingua russa 58, 5 %
popolazione di lingua ucraina 24,4%
popolazione tatara ( oriundi russi, mussulmani ) 12,1%
Simferopoli: popolazione russa 60%
Sebastopoli: popolazione russa 71,1%
Ed ecco la composizione etnica dell'Ucraina, esclusa la Crimea:
abitanti 8, 3 milioni, di cui 1/5 di lingua russa
Ucraina sud-orientale
capoluogo Donetsk: popolazione russa 48,8% popolazione ucraina 51,2%
Odessa ( grande porto sul Mar Nero ) popolazione russa 60%
Da come si vede, la situazione in Crimea presenta un'anomalia che i mass media non mettono in risalto, forse perché Putin non gode in Europa e negli USA di grandi favori, e cioè la maggioranza degli abitanti della Crimea è di lingua e sentimenti russi, maggioranza rivelatasi schiacciante domenica 16 marzo. Si potrà dire e scrivere tutto quello che si vuole, che in Crimea c'era la presenza militare russa, che la Russia ha svolto una politica di persuasione che non ha svolto l'Ucraina, che Putin è autoritario, che i russi sono cattivi e hanno mire imperialistiche, ma la gente, se si sente russa, vota russo. Non si può discutere sui sentimenti di un popolo, né sulla sovranità popolare, che non dev'essere in alcuni casi una sovranità limitata. Il fatto è che la Crimea non era passata all'Ucraina per volontà popolare ma come un folle dono di Krusciov per tenersi buona la popolazione ucraina che, morto Stalin, stava scalpitando. A quell'epoca tutto era russo, e quindi si era trattato di un semplice spostamento di territorialità nella grande federazione russa, a quell'epoca bolscevica. E gli abitanti della Crimea non solo non erano stati interpellati ma, a cose fatte, non potevano neppure protestare. C'era la dittatura. Così, da un giorno all'altro si erano trovati non più russi ma ucraini.
Anche se gli ucraini mi sono molto simpatici, io, da oriundo giuliano ( Venezia Giulia: Istria ) mi auguro che si faccia finalmente giustizia della pazza separazione della Crimea dalla sua madrepatria russa, e che USA ed Europa non si incaponiscano a sostenere non legttima, anzi illegale ( parole della nostra Ministra degli Esteri ) la volontà popolare. Da quando in qua non conta ciò che chiede il popolo? Solo le dittature non riconoscono la sovranità popolare, caposaldo del pensiero democratico.
Non si può ora dire agli abitanti della Crimea di smetterla di sentirsi russi, che è legale, legittimo, ch'è democratico che si sentano ucraini. Glielo vada a dire Obama, o la nostra Ministra degli Esteri. Certo loro non rinuncerebbero alla propria nazionalità.
Alla fine della seconda guerra mondiale le potenze vincitrici avevano consentito a che la Venezia Giulia, italiana all'80%, passasse alla Jugoslavia, pupilla di Stalin. E, per farla diventare slava, non hanno sollevato alcuna obiezione quando 350 mila istriani e dalmati sono stati cacciati dalle loro terre, col terrore delle foibe e di altre atrocità che non dico. Per anni ed anni in Italia gli esuli striani e dalmati sono stati considerati in Emilia Romagna, Toscana, Umbria, in tutta la cosidetta zona rossa, dei fascisti. E tali vengono considerati ancora al giorno d'oggi da un certa parte politica erede di Togliatti. Per le grandi potenze era legittimo, anzi legale, cacciare un popolo che aveva perso la guerra per mettervi al suo posto un altro che l'aveva vinta.
Degasperi, alla Conferenza della Pace, aveva combattuto strenuamente perché l'Alto Adige, a maggioranza di lingua tedesca, non passasse all'Austria, ma non aveva alzato un dito, silenzio assoluto, quando si decise di far diventare l'Istria, italiana, slava. Anzi, gli slavi volevano anche Trieste ( e l'avevano occupata ) e parte del Friuli ( vi ricordate la strage di Malga Porzius, dove i partigiani italiani "bianchi" - compreso il fratello di Pasolini, - furono massacrati dai partigiani italiani rossi, che precedevano le milizie slave? )
Strano il concetto di legalità dei rappresentanti del mondo occidentale, compreso il nostro governo.
Nei più grossi centri istriani e in tutte le località del litorale ( Parenzo, Capodistria, Rovigno, Abbazia, Umago, Pirano,ecc. ) c'era una maggioranza schiacciante di popolazione di origine, lingua e sentimenti italiani, che a Pola e a Fiume superava il 90%. Proprio come al giorno d'oggi la Crimea in quanto a popolazione russa.
E passò un bel po' di tempo per rimpiazzare, nelle città diventate spettrali, vuote, gli abitanti fuggiti con quelli nuovi, provenienti dalla Croazia e dalla Slovenia. Nella casa dei miei sono andati a finire addirittura dei bosniaci di Sarajevo. Ma allora l'Italia era condizionata da quello ch'era il partito di Togliatti, e solo una decina d'anni fa si cominciò a parlare di foibe, di esodo, di istriani. Però nelle nostre carte geografiche ci sta scritto Pula e non Pola, Rjeka e non Fiume, Koper e non Capodistria E la mia città viene indicata come Pazin e non Pisino.
Per non parlare poi della questione di Fiume, che alla fine della prima guerra mondiale doveva, mentre il resto della Venezia Giulia passava all'Italia, entrare a far parte del nuovo stato jugoslavo, nonostante la sua popolazione avesse fatto un plebiscito per passare all'Italia, Con l'intervento invocato dai fiumani di Gabriele D'Annunzio coi suoi legionari, Fiume si proclamò Libera Città di Fiume, e D'Annunzio ne divenne il reggente.
Il plebiscito venne considerato illegale, illegitimo, come quello della Crimea, i fiumani dovevano o andarsene o accettare di diventare slavi. Il governo italiano, obbediente, mandò delle navi da guerra a bombardare Fiume, Vi furono dei morti, D'Annunzio venne ferito, e, disgustato, lasciò Fiume.
I fiumani rifecero un secondo plebiscito, e finalmente, nel 1924, le grandi potenze di allora ( le stesse di oggi ) si convinsero che la volontà popolare va rispettata anche per gli altri popoli, non solo per il loro.
Vedete dunque quanta somiglianza tra il caso Venezia Giulia e Crimea.
Ma l'Inghilterra, per poche migliaia di coloni inglesi, non aveva mandato la sua flotta di guerra fino alle lontanissime isole Falkland ( Malvinas ), a costo di dichiarare la guerra all'Argentina?
Per chiudere, una frase di Antoine de Rvarol: "Ci sono due verità che non bisogna separare, in questo mondo: una, che la sovrnità popolare risiede nel popolo, è suo diritto. E l'altra, che il popolo non deve mai esercitarla."
QUADERNI, aprile 2014
Ancora sull'Ucraina
15 giugno 2014
Non so più cosa pensare del conflitto tra le due etnie, quella ucraina e quella di lingua russa, che man mano sta diventando sempre più tragico. Due giorni fa i filorussi hanno abbattuto un aereo che sorvolava LuganK, 49 soldati ucraini morti, ieri 500 filorussi uccisi dagli ucraini a Kiev.
Penso cosa succederebbe in Alto Adige se si prendessero a cannonate gli altoatesini di lingua tedesca ( i tirolesi ) che volessero tornare all'Austria. L'Austria non starebbe zitta, e neppure l'Europa e neanche l'ONU.
L'Italia anni fa, all'epoca dei tralici che saltavano, aveva fatto delle concessioni - tra le quali una maggiore e migliore autonomia - che hanno fatto riportare la pace, e ora italiani e tedeschi convivono tranquilli.
Riguardo la crisi ucraina, i giornali pubblicano le notizie ( ce ne ho uno sott'occhio ) a pagina 14 - un piccolo trafiletto - la tivù neppure ne parla, o solo poche parole verso la fine dei telegiornali.
Se uno solo annega in un barcone pieno di gente che vuole raggiungere le nostre coste, tanto di prima pagina, se muoiono 500 ucraini o russi, quasi silenzio completo.
Sono sgomento e perplesso, l'Europa tace, quell'Europa che ci dice che diametro devono avere i rapanelli, eppue Ucraina e Russia sono Europa. Gli Europei valgono meno degli africani? Se protesta per via ufficiale, intima blandamente agli ucraini filorussi di fare i bravi, neppure un rimprovero agli ucraini di lingua ucraina. E minaccia la Russia di ritirare le sue truppe dal confine.
Voglio vedere se Obama non difenderebbe i propri connazionali ad es. nel Messico confinante con tanto di carri armati o aerei! L'Inghilerra aveva mandato le sue navi fino alle argentine isole Falkland per un paio di migliaia di ex coloni inglesi.
Se due contendenti si scannano fra di loro, occorre intimare ad entrambi di deporre le armi, non ad uno solo. Come fanno anche gli USA di Obama. E l'ONU? Ma esiste ancora l'ONU?
Il PUNTO E VIRGOLA
Sulle prime fa sorridere, pare una cosa sciocca perdere del tempo a discutere sul punto e virgola, eppure, a ben pensarci, è una cosa più seria di quella che si pensa: anche un punto e virgola ha bisogno di qualcuno che difenda il suo diritto di sopravvivere; del resto, pure le parentesi tonde sono in via di estinzione, hanno fatto il loro tempo, e chi scrive trova più chic sostituirle con le lineette - soluzione più sbrigativa, - così come una fine ingloriosa hanno fatto gli incontri tripli di vocali ( chi scrive più aiuola? più semplice l'aiola, anche se, parlando, si continua a pronunciare quella "iuo" che si vuole mettere al bando. Lo stesso vale per mariuolo che, pur pronunciadolo mariuolo, lo si scrive sempre più spesso ormai mariolo.
Avevo letto che tra Francia e Inghilterra era scoppiata qualche anno fa la guerra della punteggiatura: oggetto della contesa era appunto il punto e virgola. Un'equipe di prestigiosi intellettuali parigini aveva lanciato l'allarme: la nefasta influenza inglese sta rivoluzionando in peggio la loro grammatica. Si sa che gl'inglesi hanno una loro grammatica semplificata al massimo, a volte quasi primitiva, assai più accessibile delle altre grammatiche europee, e ciò la pone in una posizione di netto vantaggio.
L'accusa tra l'altro era stata quella di avere fatto fuori il punto e virgola: solo pochi lo usano ormai più, anche da noi i giovani non ne conoscono neppure l'esistenza, gli insegnanti non si curano di simili sciocchezze ( o non lo sanno neppure loro che esiste ); dove si sente il bisogno di un punto e virgola, lo si sostituisce con la virgola o con il punto, come hanno fatto quei semplificatori che sono gl'inglesi, rei per la categoria degli intellettuali di comportarsi da popolo grezzo, che ignora le sottili sfumature stilistiche del pensiero e della scrittura.
Il Nouvel Observateur ha annunciato, dopo avere citato, da buon francese, i francesi Hugo, Proust, Flaubert, che senza il punto e virgola uno scrittore o un poeta non vanno da nessuna parte.
Nell'aprile del 2008 il governo dell'allora presidente francese Sarkozy aveva promulgato una legge per la tutela del punto e virgola, obbligandone l'uso nelle scuole e negli uiffici pubblici: qualsiasi tipo di corrispondenza ufficiale avrebbe dovuto includere non meno di tre punti e virgola.
Alcuni giornali inglesi avevano reagito con il loro caustico umorismo, ribattendo che a poco a poco l'obsoleta sintassi francese, col suo punto e virgola, avrebbe fatto una brutta fine. Il Guardian a sua volta aveva scritto con ironia che un punto e virgola poteva godere di tanta considerazione solo in un Paese in cui "strutturalisti, relativisti e filosofi vengono invitati nei programmi televisivi in prima serata". Aggiungendo che da loro, in Inghilterra, non c'era posto per "pensatori a tempo pieno" e che "le banalità le lasciavano volentieri ai francesi. "
Ma guai toccare ai francesi qualcosa che sia francese, il loro smisurato orgoglio li può a volte rendere antipatici o ridicoli: solo in Francia può esistere una Commissione che ha pubblicato un documento di 65 pagine in cui sono messe alll'indice un bel po' di quelle parole inglesi che stanno prendendo piede anche da loro, tra le quali e-mail, blog, mouse, server, low-cost, coach, fast food, suggerendone i sostituti in lingua francese.
Anche noi dovremmo avere un poco più d'orgoglio per la nostra bellissima lingua: molti termin inglesi ora in voga provengono dalla nostra penisola, sono nati da noi, e poi, passata la Manica, sono stati anglesizzati. Per poi tornare da noi, che li usiamo, dandoci anche la tipica pronuncia inglese, e diciamo: privacy, devolution, education, reception, mass media, memorial, profit, ecc.
Per non dire di certe astrusità come megastore, che dovrebbe significare supermercato, e che è un connubio greco-inglese, in quanto mega ( grande ) viene dal greco e store ( negozio ) dall'inglese, o come mass media ( mass termine inglese e media termine latino).
A proposito: quanti pronunciano mass midia, anche se in latino media si legge media e non midia?
Italo Bonassi, QUADERNI, maggio 2008
La poesia è utile o è solo tempo perso scrivere versi?
Utile è una cosa impegnativa, utile è respirare, parlare, camminare, mangiare, bere, dormire, muovere le dita della mano, parlare per capirci l'un l'altro, anche fare all'amore per assicurare la continuità della propria specie. Da questo punto di vista, si dovrebbe verificare anche l'utilità della musica, della danza, della pittura, della scultura, delle diverse forme di divertimento e di fare cultura, non ultimo leggere e scrivere romanzi o che altro.
Allora non chiedamoci se la poesia sia o no utile, se serva a qualcosa o non serva a nulla. Quantomeno se serva agli altri che noi si scriva poesie perché gli altri le leggano.
Come dire se serva agli altri che noi si faccia un quadro e che gli altri lo comprino ( veramente a noi servirebbe, più che dipingere un quadro, che gli altri ce lo comprino, per guadagnarci sù qualcosa ( N.B. sù con l'accento, perché in questo caso non è preposizione ma avverbio, nche se molti, troppi, lo ignorano )
Non è un paradosso, ma anche un semplice sasso può essere utile quando lo adoperiamo per spaccare una noce.
Da qui la constatatazione che un sasso ha un livello di utilità superiore a quella della poesia, della musica, della pittura, ecc. Anche il piccolo, umile lombrico è utile, lo sa l'ortolano, con quel suo mangiar terra, rivoltarla nel suo minuscolo corpicciolo ed evacuarla soto forma sostanza organica assimilabile, utile ai suoi broccoli.
Non parliamo allora di utilità, la poesia non è un oggetto e non si può avere, non si può adoperarla, non si può mangiarla e poi evacuarla, non si può con essa rompere neppure una noce. Non serve a niente. Ma è in noi, fa parte del nostro essere, anche inconscio.
Fa del linguaggio della mente e del linguaggio del corpo un unico linguaggio, che accorda anima e corpo. Un accordo tra il nostro io razionale ( il conscio ) e quello irrazionale ( l'inconscio ).
In una società che mitizza valorizzando soprattutto l'utile, la non utilità della poesia è sempre più indispensabile.
La poesia è l'inutile che serve. E allora, scriviamole le nostre inutili poesie ( carmina non dant panem ), anche se non sono utili come il sasso ed il lombrico, andiamo controcorrente, facendono dono a chi ci legge, non è detto che l'inutilità dei nostri versi non serva a qualcosa, a esaltare l'inutilità in un mondo alla continua ricerca dell'utile. Un inutile di sensazioni, emozioni, immagini, memorie, ammucchiate come in un magazzino in attesa di creare ulteriori emozioni e ulteriori immagini in chi le legge o le ascolta.
Noi che scriviamo poesia siamo immersi fino in fondo nelle grandi problematiche esistenziali delle piccole cose inutili, a noi interessa l'eternità di un pennino rotto, il dolore di un grillo, la felicità dello scroscio d'acqua di una fontana, la tristezza del rubinetto del lavandino che perde. Noi, inutili cantori dell'inutilità.
ITALO BONASSI, 10 maggio 2014
RICORDIAMO MARIA LUISA SPAZIANI
Una delle maggiori poetesse italiane, Maria Luisa Spaziani, è morta il 30 giugno di quest'anno all'età di 91 anni.
Candidata per ben tre volte al Premio Nobel per la letteratura, nel 1990, nel 1992 e nel 1997.
Era stata la donna di Eugenio Montale, da cui aveva appreso l'arte di scrivere poesia con un tono tra il serio, il semiserio e lo scanzonato.
Era stata una della madrine del Premio Strega e la fondatrice del Premio di Poesia Montale.
Per ora la ricordiamo con una sua poesia,
Testamento
Lasciatemi sola con la mia morte.
Deve dirmi parole in re minore
che non conoscono i vostri dizionari,
Parole d'amore ignote anche a Petrarca,
dove l'amore è un oro sopraffino
inadatto a bracciali per polsi umani.
Io e la mia morte parliamo da vecchie amiche
perché dalla nascita l'ho avuta vicina.
Siamo state compagne di giochi e di letture
e abbiamo accarezzato gli stessi uomini.
Come un'aquila ebbra dall'alto dei cieli,
solo lei mi svelava misure umane.
Ora m'insegnerà altre misure
che stretta nella gabbia dei sei sensi
invano interrogavo sbattendo la testa alle sbarre.
E' triste lasciare mia figlia e il libro da finire,
a lei mi cosola e ridendo mi giura
che quanto è da salvare si salva.